?Benvenuti ad Haiti, il paese della speranza?

Mar 13, 2010 | Antillas, Famiglia Claretiana, La Missione Clarettiana

Impressionante narrazione di alcune esperienze traumatiche.
Scrive Marta Boiocchi in missione condivisa con i clarettiani.

Haitiproclade.jpgHaiti. Ritorniamo dall’Argentina, via Santo Domingo, e domenica 28 febbraio calpestiamo di nuovo il suolo haitiano. Anistus è ad accoglierci all’arrivo e ci porta a fare una prima visita a Porto Principe. Alla partenza lasciammo un paese e al ritorno ne incontriamo un altro totalmente differente.

Porto Principe è l’immagine della desolazione. Ci si stringe il cuore davanti all’enormità del disastro. Così come ci avvertirono i seminaristi clarettiani in Santo Domingo, una cosa è ciò che fanno vedere i MCS e un’altra cosa è la realtà. Niente è rimasto in piedi e quello che ancora resta minaccia di cadere. Innumerevoli case e muri portano scritto il loro destino: “da demolire”. Non è rimasta pietra su pietra. Sotto le macerie, ancora da rimuovere a un mese e mezzo dalla tragedia, rimangono cadaveri la cui presenza si percepisce dall’odore che proviene dalle rovine.

La prima cosa che visitiamo è la cappella “S. Antonio Maria Claret”, costruita con tanti sacrifici da Anistus e dalla sua comunità, ora completamente distrutta. L’altare è caduto interamente, senza rompersi, dal secondo piano al primo. Il resto è completamente distrutto. Anistus rivive il giorno del terremoto: la stessa sera, la gente della sua comunità lo avvisò che la cappella era caduta ed egli, col cuore spezzato, andò a vederla. Passò fra cadaveri sparsi in mezzo alla strada, feriti, gente che gridava piangendo…

Pianse al vedere il disastro delle famiglie della sua comunità e della cappella. Durante una settimana continuò a piangere ad ogni visita, mentre cercava con la mente da dove cominciare a ricostruire sia la comunità che la cappella, luogo di incontri e di celebrazioni, che deve convertirsi in luogo di ricostruzione e di speranza.

In questa prima settimana e con l’aiuto dei membri sopravvissuti della sua comunità, abbiamo ricuperato l’archivio parrocchiale mentre organizzavamo la solidarietà con le famiglie danneggiate: acqua e viveri, coperte ed indumenti di prima necessità. Poi siamo andati al centro della città. Siamo passati davanti al palazzo del governo, simbolo di un paese decapitato, con una classe dirigente scioccata, spaccata e disorientata. La gente si chiede: «Che cosa è successo?». Cham Mas, la piazza principale, è un vero campamento di rifugiati, con tende multicolori, dove nella terza settimana dopo il terremoto si sono posti dei servizi igienici chimici.

Ci commuove profondamente il vedere la Cattedrale, col suo Cristo in piedi. Lì il coro, che si preparava per la prossima celebrazione, ha cantato il suo ultimo canto e tutti i suoi membri sono morti lodando Dio. Ci si riempie il cuore di dolore nell’attraversare le rovine dell’Arcivescovado, ove sono morti Mons. Miot e il suo Vicario, il P. Benoit, che portava il titolo onorifico di Monsignore. Ci sgorga una preghiera dolorosa per gli amici perduti. Ricordiamo che Mons. Miot aveva detto, nella Messa di consegna dei certificati ai primi 40 Biblisti Popolari usciti dalla nostra Scuola Biblica “Mons. Romero”: «Ho chiesto al Signore di morire celebrando la Messa come Mons: Romero». Il suo sogno non si poté realizzare.

Inoltre ci riempie di dolore sapere che Mons. Benoît non morì subito, ma che, sotto le macerie, riuscì a chiamare col suo cellulare i suoi amici, prima che le comunicazioni fossero interrotte, con la patetica supplica: «Io sono ancora vivo. Vedete che cosa potete fare per me, per favore». La sua supplica poté essere ascoltata, ma non esaudita.

Quindi passiamo per San Marziale, la nostra prima dimora quando Anibal, Fausto, Giulia e Marta giunsero ad Haiti nel 1999. La casa delle suore è rimasta in piedi. Quella dei padri e il Seminario sono completamente distrutti, come pure parte del Collegio. Il portinaio ci informa che non ci sono vittime fra i Padri Spiritani.

Continuiamo il percorso senza poter dissimulare lo stupore e il dolore che ci provoca un Porto Principe irriconoscibile. E’ difficile riconoscere le strade, i negozi, gli edifici pubblici. La città che percorriamo, che conoscevamo, è scomparsa. Ora è un grande cimitero che contiene centinaia di haitiani e haitiane, sepolti sotto le macerie. D’ora in poi la sua storia sarà divisa tra prima e dopo il 12 gennaio 2010. Nei marciapiedi i venditori preparano piatti ed offrono mercanzie, mentre in mezzo alle tende alcune ragazze tentano di danzare con la grazia tipica dei loro corpi snelli e magri, mentre dei bambini sorridenti caricano dei bidoncini. La vita continua. Haiti è stato, è e sarà il paese della resistenza.

Passate le 6 della sera, giungiamo alla casa di via Delmas 31. Nel cortile c’è una tenda ottenuta dopo due settimane di vita passate sotto le intemperie. La casa è sorretta dalle “morse” di ferro portate qui da Porto Rico. E’ molto insicura per viverci dentro, ma almeno i servizi possono essere utilizzati. Dopo una prima visita, riconoscendo il rischio che hanno corso nel fatto che non è crollata, ci mettiamo a parlare e ascoltiamo con emozione la relazione di Anistus, di come visse il momento del terremoto.

Quei lunghissimo 37 secondi con Magnus in braccio, il piccolo di Dilén, la signora che fa la cucina e pulisce la casa. Come ha sentito vicino la morte e solo ha pensato come proteggere col suo corpo la vita del bambino. In mezzo al rumore delle case che cadevano e della polvere che li accecava, udì la voce di Beauplan, primo sacerdote haitiano della Congregazione Clarettiana, che gridava di uscire di casa e che li aiutava a trovare l’uscita. Poi in strada si incontrarono con Dilén, la madre del bambino, che abita nella casa di fronte, piangendo disorientata e chiedendo del piccolo, senza capire quello che stava succedendo.

In seguito Anistus ricorda riconoscente la visita di Roselio Diaz Heredia, cmf, parroco di Jimanì, la città di frontiera fra la Repubblica Dominicana e Haiti. E l’immediato soccorso e sollievo portato dal P. Hector Cuadrado, Superiore della Delegazione. Gli aiuti organizzati dal P. Pepe Rodriguez, pure di Jimanì e della Descubierta. Non c’è dubbio che la solidarietà dei confratelli della Congregazione è stata il sostegno della sua speranza.

Poi arriva il P. Joaquin Grendotti, che viene per una giornata di incontri con i suoi compatrioti della Minustah. Egli pure ci racconta del suo arrivo, dell’esperienza dei continui terremoti che continuano a distruggere la già martoriata città, l’esperienza del portar cibo e acqua a Kazal. In un primo censimento ha contato 386 morti nel quartiere di Nazon.

Anistus ci racconta dei tre insegnamenti che egli ha tratto da questi avvenimenti che colpiscono tutti fino alle ossa:
– nessuno ha qualcosa che gli appartenga. Le cose che abbiamo, oggi ci sono e domani no. Le case, le auto, le cose sono tutte relative. Niente di ciò è veramente importante.
– Per coloro che rimangono vivi è un avvertimento: se facciamo il bene, farlo meglio; se facciamo il male, convertiamoci. Il tempo è corto e la vita insicura. Ci si è regalata una nuova opportunità.
– Il terremoto ci ha resi tutti uguali. Nessuno è più di un altro. I grandi capi, i sacerdoti, i poliziotti che qualche volta pensano di essere superiori, dormono in strada insieme alla gente. La terra è il livello per tutti. Nessuno è più alto di un altro. Tutti siamo uguali.

Magari cadesse in profondità questo messaggio che ha toccato profondamente il cuore di Anistus. La gente di Kazal sa che Anibal è arrivato e cominciano a giungere i saluti telefonici. Bové, uno degli studenti usciti dalla scuola biblica “Mons. Romero” e attualmente partecipante del gruppo che va a continuare gli studi biblici all’Università Biblica Latinoamericana di Costa Rica, ci invia un messaggio telefonico: «Marta e Anibal, benvenuti ad Haiti, il paese della speranza».

Siamo a casa. Per la notte, dopo una ricca cena preparata da Dilén e condivisa in allegria, ci ritiriamo a dormire condividendo la tenda, nel cortile. Comincia a piovere e il rumore delle goccie sopra la plastica ci aiuta a conciliare il sonno. Alle 5 del mattino c’è un terremoto che solo alcuni percepiscono.

Dopo la colazione, Anibal ed io partiamo per Kazal. Passiamo per la strada, vicino alle grandi fosse comuni. Grazie a Dio, dentro non vi è nessuno dei nostri amici e collaboratori della missione condivisa. Lo vediamo come un vero miracolo. Preghiamo con fede profonda il Dio della vita che ha accolto tanti fratelli e sorelle haitiani fra le sue braccia.

Per arrivare alla parrocchia di Kazal continuiamo a viaggiare sul letto del fiume poiché ancora non hanno terminato il ponte, distrutto dal ciclone dell’agosto 2008. I ragazzini gridano di gioia al vedere Anibal e salgono sulla macchina. Sanno che ci sarà qualche caramella all’arrivo alla cappella.

Nella casa vi sono Beauplan e Nadèj, una delle compagne dell’équipe che ci racconta come visse l’orrore del terremoto nella sua casetta di Porto Principe, cercando di proteggere col suo magrissimo corpo il suo figlioletto Yan, di 8 anni. Anche Beauplan ci dice che è un’esperienza che non si desidera per nessuno.

La casa non ha sofferto danni e la chiesa molto pochi. Wilchen ha messo una tenda nel cortile dove si dorme. Al lato, una tettoia di plastica serve da refettorio e sala di riunioni. Come noi non abbiamo sofferto il trauma del terremoto, ci occupiamo delle nostre rispettive abitazioni dentro la casa.

Dopo aver pranzato, facciamo una prima riunione con l’équipe dei giovani della comunità. Impressiona la tristezza dei loro occhi. Lo sguardo sembra più profondo e oscuro che mai. Si ride poco. Appena un sorriso e poi la serietà copre il loro volto nuovamente. Ognuno e ognuna racconta come ha vissuto il terremoto. Con frasi brevi, senza drammatismi. Ma tutti e tutte con profondo dolore. Michel ha perso una zia insieme ai suoi quattro figlioletti, tutti sepolti nella fossa comune. Blondì ci racconta che il giorno seguente al terremoto partì per Porto Principe in cerca di suo fratello. Finalmente incontrò in buono stato tutti i suoi familiari. Ma perde il sonno al ricordo di aver visto sollevare i morti con una pala scavatrice, come se fossero spazzatura, e gettarli nella fossa comune per coprirli con calce viva e poi con terra. Di nascosto ha preso una foto che documenta questo momento. Impallidisce e scuote la testa mentre borbotta: «Non posso dimenticare…».

Nonostante il dolore, non possiamo fare a meno dal ridere sull’esperienza di Gilbé e Pol Ednel. Stavano insieme scavando una fossa nel cimitero per un parente che era morto. Trovarono delle ossa di qualcuno sotterrato in questo luogo da molto tempo. Collocarono le ossa in un angolo della fossa e aspettavano che un vicino portasse rhum per bagnare le ossa prima di tornare a ricoprirle di terra. Gettare rhum sopra le ossa è un rito “vudù” di purificazione, come il nostro ancestrale costume di gettare acqua benedetta. Il rhum non bagnò bene le ossa secche, la terra cominciò a tremare. Gilbé e Pol Ednel pensarono che i morti stavano protestando e scuotendo il cimitero. Incominciarono subito a correre, senza sapere ciò che stava succedendo, mentre sentivano che una forza poderosa li tirava indietro. Nella loro corsa incontrarono un uomo afferrato a un albero che si agitava e gli gridarono: «Signore, che fa lì?», a cui l’uomo rispose: «E voi che fate correndo?». Poi, all’arrivare a casa seppero che c’era stato un terremoto, ma stanchi com’erano si addormentarono.

Il giorno seguente, s’informarono della magnitudo del terremoto e dei disastri prodotti nella capitale. Ora i due ridono della loro folle corsa e della faccia spaventata che avevano.

Le case di tutti hanno sofferto crepe, i muri sono pericolanti e le abitazioni non possono essere utilizzate… Dopo questo primo scambio di esperienze, ci raccontano dei loro lavori in questi due mesi di assenza di Anibal. Hanno continuato a lavorare con i “banquitos” dei poveri, l’organizzazione campesina; hanno creato un “Mutuo di Solidarietà”; hanno formato l’ “Equipe di Liturgia”; continuano a riunirsi nelle comunità…

Programmiamo la partecipazione delle CEB, i giorni 12, 13 e 14, in Haiti, con i cristiani della Repubblica Dominicana, in un incontro di preghiera binazionale in Fon Parisien per celebrare la memoria di Mons. Romero, oltre a un giorno di preghiera per la Comunità, il prossimo 19 marzo. La riunione termina. Rimane una domanda da fare: «E ora, per il futuro…?». Con più di 220.000 morti, 3 milioni e mezzo di senza tetto, 8.000 scuole distrutte, senza università, né scuole tecniche, né lavoro…Come si potrà continuare?…Ci accascia il silenzio…

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